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[Recensione apparsa sulla rivista Archivio Storico Lombardo, a. XLVII (1920/1-2) pp. 157-162]

GIOVANNI ANTONA TRAVERSI, Per le Nozze Ponzani - Antona Traversi, Milano, Capriolo e Massimino, 1919; pp. 60.

Meda è oggi un grosso e industriale borgo situato agli estremi limiti della Brianza occidentale sulla ferrovia Milano-Erba.

Nel punto più elevato dei paese si elevava anticamente l’insigne monastero delle Benedettine di S. Vittore, le cui origini si perdono nel buio dei secoli medioevali. Lo si dice fondato da due pii e nobili signori milanesi, Aimo e Vermondo, i quali, dopo la loro morte, furono colà sepolti e venerati come santi. Certo è che lo troviamo nominato fin dall’856, ed ebbe vita fiorita e doviziosa fino al 1798 nel quale anno fu soppresso dalla Repubblica Cisalpina. Al momento della soppressione contava 29 monache professe e 21 converse: badessa era Giulia Maria Premoli di Crema. I beni mobili ed immobili furono valutati dal liquidatore ingegner Ferranti un milione e cento mila lire, ma dovevano valere ben di più quando si pensi che oltre i fabbricati, i mobili, le se… e le argenterie possedeva circa 16271 pertiche di fondi in Meda e in altri comuni della plaga circostante. Sperarono le monache di ritornare nei loro possessi durante la breve dominazione austriaca, ma ritornati i francesi (1799) svanì per sempre quest’ultima loro speranza. L’antico caseggiato monastico, ora ridotto a splendida villa, passò nel 1836 in proprietà dell’avv. Giovanni Antona Traversi, il quale acquistò anche il prezioso archivio. Annessa al palazzo vi è tuttora l’antica chiesa delle monache, ricca di pregevoli opere d’arte illustrata anni fa dal dott. Diego Sant’Ambrogio nel giornale La Lega Lombarda.

Cogliendo l’occasione di un lieto evento familiare il giovane signor Giannino Antona Traversi raccolse in questo elegante opuscolo 14 dei più antichi documenti di quell’archivio.

I più preziosi sono i primi tre, i quali datano prima del mille, e sono del febbraio 968, del 14 aprile 978, e del 10 dicembre 995: il primo tratta di una permuta di fondi, gli altri due di vendita.

Gli undici seguenti sono del secolo XII (dal 1138 al 1192), e sono più o meno interessanti a seconda del punto di vista col quale possono venire studiati.

Verso il 1190 fra il comune di Barlassina ed il monastero venne ad agitarsi una questione, la quale dal piccolo fatto locale doveva assorgere, attraverso le sue fasi, ad una lotta giuridica tra il Comune sovrano di Milano, rivendicante per mezzo dei suoi magistrati la pienezza della giurisdizione, e l’autorità imperiale che in questo non intendeva abdicare ai suoi diritti. Se colla pace di Costanza il Comune milanese poté dire di aver ottenuto "plenam Iurisdictionem" sulla città e sul contado(1), rimaneva tuttavia sancito il principio dell’autorità suprema imperiale che si manifestava particolarmente con le curie di appello dalle sentenze dei magistrati comunali. Perciò il Comune, che subiva con grande riluttanza questa giurisdizione imperiale d’appello come una grave menomazione delle autonomie del Comune, lavorava a scuotere praticamente dalle basi tale principio coi sorpassare la giurisdizione dei giudici imperiali. Motivo della lite fu che la badessa di Meda esigeva che i vicini di Barlassina riconoscessero la sua signoria in quanto le spettava parte del distretto sul luogo e territorio di Farga, sul quale sorgeva Barlassina, in proporzione delle terre posseduta "pro indiviso" con altri proprietari. Quei di Barlassina non ne volevano sapere, intendendo provare il contrario. Di qui la causa alla quale appartiene l’atto del 22 gennaio 1192, pubblicato nell’opuscolo, atto che ne richiama altri relativi alla stessa vertenza e non meno importanti, ma che forse più non si trovano nell’archivio delle monache perché l’autore non avrebbe mancato di farceli conoscere. Il Biscaro lo poté conoscere e studiare insieme ad altri due aventi con quello stretta relazione, e, cioè una seconda sentenza pronunciata il 24 gennaio 1191 da Passaguerra e Ottobello Zendatario giudici imperiali delegati per le cause d’appello in Milano, e in un decreto dell’imperatore Enrico VI del 23 novembre 1191 che sanziona le due sentenze, e annulla invece quelle emanate dai magistrati del Comune di Milano, dando così causa vinta alla badessa. Si noti che il Biscaro ebbe alle mani non gli originali ma copie non autentiche del secolo XVIII dell’Archivio di Stato di Milano ricavate da documenti dell’archivio del monastero. E riguardo alla copia corrispondente al nostro documento egli osservò che la data del 1192 e l’indizione decima vanno corrette in quella del 1191 coll’indizione nona, trattandosi di uno svarione dell’amanuense (2).

Un altro documento, che ci fa conoscere usanze e diritti plebani foresi vigenti nella chiesa milanese, è quello del dicembre 1138 col quale l’arcivescovo Robaldo, contro la pretesa dei prevosto di Seveso, riconosceva alla badessa il diritto di nominare il sacerdote della chiesa di S. Maria di Meda. L’ebbe già a studiare il Giulini che lo conobbe perchè pubblicato dal Sassi nella vita dell’arcivescovo Robaldo trascrivendolo dall’originale esistente nell’archivio delle monache (3). Terminata la lite col prevosto di Seveso, i borghigiani di Meda pretesero più tardi che a loro spettasse il diritto di eleggere il sacerdote della sopraddetta chiesa. Il monastero dovette sostenere una nuova causa con ricorso al pontefice. La bolla di Alessandro III del 15 giugno 1176, riportata nell’opuscolo, deferiva appunto al vescovo di Verona, Omnebono, di decidere la controversia. La sentenza riuscì favorevole alla badessa con giudicato del 14 marzo 1177. Questo atto deve pure trovarsi in quell’archivio avendolo di recente visto l’Allievi (4). Ma si devo notare che i borghigiani per tagliare il nodo gordiano della questione in loro favore avevano preteso di costruire senz’altro una nuova chiesa indipendentemente dalle monache, e a questo fatto si riferisce un’altra bolla di Alessandro III, datata da Anagni il 22 maggio 1176, colla quale si proibiva la costruzione di qualsiasi chiesa nell’ambito della parrocchia di Meda. La bolla, la quale certamente proviene dall’archivio di quelle monache, ora si trova nella biblioteca dei padri Olivetani di Seregno, e fu pubblicata dal Rossi (5). Ma quei di Meda avevano la testa dura, e di fronte alla sentenza di Omnebono ricorsero direttamente al papa il quale rigettò l’appello come da bolla in data 28 aprile 1178. Non si scoraggiarono e ritentarono la prova con papa Lucio III e Urbano II, ma sempre invano perché con bolle rispettivamente del dicembre 1181 e del 14 febbraio 1186 videro confermate le sentenze precedenti. Tale questione venne risollevata ancora nel secolo XVI e di nuovo Giulio III nel 1553 riconfermava tale diritto al monastero (6).

Ma un’altra lite, pur degna di nota, ebbero a sostenere i borghigiani di Meda colla badessa. Pretendevano essi che fosse in loro diritto di rimuovere gli edifici, le pietre, le lapidi, i legni e gli alberi che avevano sui loro beni allodiali, e tutto, come a lor piacesse, trasportare altrove. Tale diritto pretendevano altresì per le terre masserizie o comunque in affitto, riconoscendo però, in questo caso, il diritto di farne acquisto dietro stima di buoni uomini. Per qual motivo i medesi presero tale risoluzione non sappiamo, ma forse non si è lontani dal vero pensando che volessero sottrarsi alla signoria del monastero, emigrando altrove, visto che per nessun verso potevano spuntarla nella questione dell’elezione del sacerdote. Le usanze milanesi pare ammettessero la libera emigrazione, così che l’anno seguente (1179) l’abate di S. Ambrogio invece di ricorrere ai consoli i quali probabilmente gli avrebbero dato torto, dovette rivolgersi all’imperatore per conservare la sua signoria sugli abitanti della corte di Inzago che si erano trasferiti al vicino Belinzago (7).

Comunque sia, la badessa fece opposizione coll’eccepire che non ora lecito ai borghigiani di ciò fare, specialmente riguardo agli edifici massarizi e a quelli su altre terre in affitto, perché "si veneatur emptor, tantum quantum est quinta pars pretii totius tam soli quam edifitii eidem abbatisse pro investitura de suo solvere debeat, unde si destruerentur ius suum et emolumentum imminutum est, et dampno afficeretur, et locua destrueretur". I medesi, pur riconoscendo che dovessero rimborsare questo danno, richiedevano che fosse loro riconosciuto il diritto di fare quanto domandavano. Da ambe le parti si introdussero testimoni e istrumenti "super usibus... qualiter soliti sunt vendere, vel non liceat vendere" in sostegno delle rispettive ragioni, ma furono insufficienti per poter decidere in merito. Pertanto fu discussa la causa e Gregorio giudice detto Cacainarca, console di Milano, insieme a Guercio giudice detto Ostiolo ed altri consoli suoi colleghi, sentenziò il 17 maggio 1178 che fosse lecito senz’altro ai borghigiani di far quello che richiedevano per i loro beni allodiali, e per gli edifici sopra i masserizi o altre terre in affitto, "pro eo quod volentes recedunt", non era loro lecito qualora la badessa si dichiarasse di acquistarli al giusto prezzo. La stima doveva esser fatta dai delegati dei consoli, e l’elezione doveva aver luogo nei quindici giorni dopo che la badessa era stata citata, "alioquin exindo liceat ipsia burgensibus libere et impune ipsa edifitia sicut de allodiis dictum est tollere et portare, eo videlicet modo uti in omnibus edifitiis debent burgenses iuramento declarare quod de lignis vel petris ipsius abbatisse ibi positum est ut proinde tanto minus estimentur edificia et quod super allodiis est abbatisse relinquant, et si abbatissa emere non elegerit, intra duos menses debent habere evacuata sedimina" (8).

La sentenza lasciava impregiudicate altre questioni che potevano venire a riconnettersi, come quella riguardante gli obblighi delle prestazioni (9) e l’altra se gli allodi erano o no dei borghigiani o della badessa. L’atto al quale presenziarono 17 fra i primari cittadini milanesi, fu sottoscritto dal sopraddetto Gregorio da Guercio giudice, da Girardo Gisto, da Ottobello Zendatario console, da Ugo detto "de Castegnianega" del sacro palazzo, e iscritto da Rogerio Bonafide giudice e messo del re Corrado II.

Cosa poi sia avvenuto non sappiamo. Ad ogni modo Clemente III certamente dietro istanza della badessa, con bolla del 13 aprile (1188-1190 ?) ordinava all’arcivescovo di Milano di far troncare agli uomini di Meda, la costruzione di nuove case da essi intrapresa contro i diritti del monastero. Ambedue questi documenti sono riportati nell’opuscolo.

Tutte queste controversie che quei di Barlassina e di Meda ebbero colla badessa, signora del luogo, sono episodi di quella lotta tenace e perseverante, che sotto diverse forme e coll’aiuto del Comune sovrano, veniva svolgendosi nelle campagne per una maggior libertà ed un miglior benessere contro i diritti feudali di signoratico. Prima delle guerre del Barbarossa non si ha nelle campagne che qualche timido accenno, ma dopo lo sconvolgimento prodotto da quelle lunghe guerre e il definitivo trionfo del Comune cittadino colla vittoria di Legnano (1176) e colla pace di Costanza (1183), il diritto feudale viene sempre più disgregandosi non solo nei rapporti giuridici feudali ma anche nell’economia fondiaria, iniziandosi in tal modo la graduale ascensione dei rustici, venuti ultimi, ad una coscienza di classe. Avveniva allora presso a poco, mutatis mutandis s’intende, quanto vediamo oggi accadere intorno a noi più in grande nel diritto e nell’economia dopo lo sconvolgimento prodotto dalla recente terribile guerra mondiale. Naturalmente si usavano quei mezzi che il tempo consentiva: le formidabili organizzazioni odierne (per quanto non mancassero anche allora fra i rustici conventicole segrete severamente proibite negli statuti rurali emanati dai signori), e l’arma potente dello sciopero non erano ancora state foggiate dall’evoluzione sociale.

Si dice che l’archivio di quel monastero contenesse un tempo ben 25 mila pergamene: forse è un’esagerazione. Ad ogni modo ne rimangono ancora oggi 3300 così da costituire uno dei fondi monastici dei più ricchi di Lombardia, e una fonte cospicua per la storia di Meda e dintorni, e meglio ancora per una sempre più precisa conoscenza dello svolgimenti degli istituti giuridici ed economici. Sarebbe perciò desiderabile una pubblicazione organica e sistematica di quegli atti almeno in forma di largo regesto, completandola con altri atti andati dispersi ma che si potessero rintracciare. L’opera riuscirebbe di onore alla nobil casa Antona Traversi e di utilità agli studiosi. Che vale tener nascosti simili tesori se non vengono sapientemente utilizzati? Comunque l’intelligente buon esempio dato dal sig. Giovanni Antona Traversi potrebbe essere imitato da altre nobili famiglie le quali tengono sepolti nei loro archivi documenti importanti per la storia milanese.

R. BERETTA